the oscarsIl 23 febbraio, alla cerimonia degli Oscar 2015, il premio come migliore attrice protagonista è andato a Julianne Moore per il film Still Alice. Questo film – un adattamento del libro della neuroscienziata Lisa Genova Perdersi – mi dà l’occasione per riprendere l’argomento cinema e Alzheimer. In Still Alice, infatti, i registi Richard Glatzer e Wash Westmoreland affrontano il tema di una delle malattie che oggi ci spaventano di più, il morbo di Alzheimer.

perdersiI film americani sulle malattie incurabili costituiscono un vero e proprio “genere”: si pensi soltanto ai cosiddetti “cancer-movie”. Personalmente tendo a essere poco attratta da questi film, che mirano a conquistare il pubblico con eventi strazianti e toni talvolta ostentati.

Ma Still Alice è molto più di un melodramma. Il film si presenta come una cronaca lucida, dove la malattia viene vissuta dalla protagonista con coraggio e speranza. Alice Howland è una donna intelligente, madre, moglie, professoressa di linguistica alla Columbia University; ha una bella vita e tanti ricordi che una forma precoce di Alzheimer le sta portando via a soli 50 anni. La professione della protagonista non è casuale: le parole sono il primo veicolo dell’identità, e proprio una perdita di controllo sul linguaggio rappresenta, nelle prime scene del film (mentre la protagonista sta facendo lezione), un primo sintomo della malattia di Alice.

still alicePoco dopo si smarrirà in un luogo a lei noto, dando l’inizio ad un crudele processo degenerativo, che la porterà a non riconoscere più i suoi tre figli e il marito e – infine – allo sbriciolamento della sua identità.

Non voglio però raccontarvi il film, ma solo soffermarmi su alcuni momenti.

Alice cerca il suo passato in alcuni home movies: questo è un elemento ovvio, ma diventa struggente quando la vediamo confrontarsi con il computer a cui, come a un complice, ha affidato tutta la sua identità. Un maggiore approfondimento del rapporto tra le due memorie (quella umana e quella artificiale) avrebbe dato a mio avviso uno spessore maggiore al film, rendendolo anche più originale. D’altra parte, la metafora “la mente è un computer” (Horn 2011) è stata a lungo al centro delle scienze cognitive, anche se più di recente si sono sollevate delle voci discordanti.

L’altro spunto di un certo interesse è il tentativo di “cura” da parte della figlia Lydia attraverso la letteratura drammatica. L’idea è che “la memoria del bello agisce sui circuiti emozionali, che irriducibili e sbalorditivi sopravvivono a quelli cognitivi”. In un altro articolo dell’Isola ho già parlato dell’importanza della letteratura nella psicostimolazione, e vi ricordo l’attenzione che molte Università stanno dando allo studio della narrazione in campo medico.

Il film risulta toccante senza sprofondare mai nel patetico, perché si arresta un attimo prima dei momenti più devastanti della malattia.

Buona visione

Lucia Benini